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Messaggio Da Tino Gianbattista Colombo Mer Mar 31 2010, 09:58

Datevi da fare avete 5 giorni

La città dolente (M. Bonnard 1949 sat) [T].avi (839665818 bytes)
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Basco Grigioverde
basco.grigioverde@libero.it



La città dolente: requiem per Pola (1949)

Non è pensabile che gli italiani di Pola - non essendo il martirio un’aspirazione di massa - possano rimanere sotto il regime di Tito” console Justo Giusti del Giardino (1947)

“La pellicola è ferma, morta; puzza di cadavere”
L’Avanti, 30 marzo 1949
Il 10 febbraio 1947 le autorità alleate consegnano a Tito il governo della enclave italiana di Pola. Fino all’ultimo i 35000 abitanti della città istriana avevano sperato di salvarsi in quanto la città faceva parte della zona A ed era interamente italiana. Purtroppo le forze politiche romane sono deboli e incapaci di fronteggiare la difficile situazione. La DC di De Gasperi teme anche solo di utilizzare termini come patria e confini nazionali, termini che vengono subito strumentalmente tacciati come “rigurgiti fascisti” dalle miopi forze di sinistra le quali, largamente finanziate da uno Stalin ancora alleato di Tito, sono assolutamente favorevoli al passaggio dell’Istria alla sfera orientale. Si tratta pur sempre dell’approdo al “paradiso” comunista (perfino gli azionisti, in genere più critici, tacciono), un “paradiso” dal quale tuttavia viene in fretta e furia organizzato un esodo biblico: pressoché l’intera popolazione di Pola fa armi e bagagli finché può. La questione è innanzitutto etnica: slavi e italiani non si tollerano e, dopo il cruento conflitto, sono divisi da rancori profondi e insanabili. Ciononostante, anche senza le ferite aperte della guerra, gli italiani averebbero comunque lasciato una terra nella quale avrebbero dovuto accettare un ruolo emarginato all’interno di un sistema oppressivo e totalitario.
In Italia invece la “rappresentazione” comunista è già in corso da alcuni anni e durerà fino al 1991 (caduta del PCUS e fine dei connessi finanziamenti). Popolo furbo e abile di stupendi commedianti (inventore del cattolicesimo e del melodramma), dopo avere recitato il dramma fascista, ora si immedesima nella sceneggiata (quasi una farsa per la verità, se non fosse per i gulag e gli anni di piombo) comunista: a parole quasi metà degli italiani si è convinta del verbo staliniano e batte cassa: il PCI e il PSI contano sui finanziamenti del PCUS, ovvero una consistente somma che varia dal 30 al 50 per cento del totale erogato nel periodo 1945-1991 da Mosca per i partiti satelliti. Così il popolo comunista della penisola può vivere comodamente in un paese che garantisce tutte le libertà, conta su capitali di varia provenienza e al tempo stesso fruisce anche di incentivi da parte di un’economia miserabile come quella russa, dove la povera gente deve fare interminabili code per merci di prima necessità.
L’Italia rimane solo per poco tempo “un paese povero” come dice, in una celebre, implorante frase, l’ambasciatore Tarchiani (luglio 1945) in un memorandum per Truman; l’Italia è un paese scaltro che, di lì a poco, può contare sugli aiuti USA alla DC, sulle immense ricchezze del Vaticano e infine anche su ingenti denari provenienti da Mosca (che la DC, con benevolenza e sendo dell’opportunità, lascia entrare in patria, senza fare troppe storie; lo racconta tra gli altri Francesco Cossiga).
La guerra è stata indubbiamente persa (nonostante la retorica della “liberazione”) e qualcuno deve pagare il conto. La nazione perde tutte le colonie, ma sopporta la privazione senza eccessivi lamenti: i prolungamenti africani (giustamente) non erano mai stati assimilati in profondità dalla nazione; riguardavano semmai l’orgoglio di una nomenclatura altoborghese che non voleva essere da meno rispetto a Gran Bretagna e Francia. Discorso del tutto differente implica invece la perdita dell’Istria e delle zone costiere della Dalmazia, territori veneziani da secoli in cui l’amputazione a favore del mondo slavo causa un massiccio esodo (nel dopoguerra almeno 200000 persone nel complesso abbandonarono quelle zone), conseguenza ineluttabile della criminale e velleitaria politica bellica di un fascismo parolaio e inefficiente.
Come detto, di fronte al dramma dei profughi, l’Italia politica reagisce con imbarazzo, censure e silenzi quando non con atteggiamenti di vergognosa ostilità: parte del popolo comunista, convertitosi di recente al nuovo vangelo nel modo ultrazelante tipico dei neofiti (e degli italiani), guarda con ostilità a questi compatrioti che fuggono dal paradiso promesso, infangando così la purezza e la credibilità del mito stesso. Tale atteggiamento antisolidaristico, abbastanza insolito per una popolazione “emotiva” e dotata complessivamente di buon senso come quella italiana, viene consacrato in modo definitivo dallo spietato Togliatti il quale, sull’Unità del 2 febbraio 1947, scrive l’ipocrita articolo “Perché evacuare Pola?”, lanciando il proprio anatema contro quelle disgraziate popolazioni di confine. Di contro, a un incerto De Gasperi, che ancora non osa dire a chiare lettere che bisogna lasciare Pola e non si decide a mettere a disposizione le motonavi necessarie, il vescovo della città istriana, monsignor Radossi, telegrafa: “Inutile, anzi doveroso non attendere. Comprendetelo una buona volta e credeteci, altrimenti venite Voi qui e noi partiremo”.
I “neorealisti”, tanto sensibili alle problematiche sociali, attenti alle biciclette rubate e ai pescatori in difficoltà, “stranamente” non si accorgono del gigantesco dramma in atto ai confini orientali della nazione. Il silenzio è d’obbligo in questi casi. Solo il meritevole Mario Bonnard, già autore di pregevoli pellicole quali Rossini (1942), Campo de’ fiori (1943) e Il ratto delle Sabine (1945; vedi), osa infrangere il muro del silenzio con un film che verrà da tutti boicottato (incasserà pochissimo) ossia La città dolente (febbraio 1949; 92 min.), sceneggiato con l’aiuto di Anton Giulio Majano, Aldo De Benedetti e Federico Fellini e ottimamente musicato dal Giulio Bonnard. Nella parte iniziale l’autore mischia in modo abile immagini di repertorio e fiction, raccontando le vicende della famiglia di Berto (Luigi Tosi) poste sul fondale dell’esodo (febbraio 1947). Tutti lasciano Pola ma Berto, convinto dall’amico Sergio (Gianni Rizzo), un comunista illuso e sciocco, decide di rimanere, nonostante l’opposizione della moglie Silvana (Barbara Costanova), preoccupata soprattutto per il futuro della loro bimba. La città viene ripopolata dagli slavi i quali trattano con la prevedibile durezza e diffidenza i pochi italiani rimasti, al di là delle affinità ideologiche. La miseria e le difficoltà fanno presto ricredere Berto che capisce il proprio errore e ottiene di mandare in Italia moglie e figlia per delle cure. Egli si ripromette di raggiungerle poco dopo, ma le cose precipitano. L’uomo è sempre più irritato dai modi autoritari e “padronali” dei compagni titini e reagisce in maniera istintivo e imprudente (e per la verità completamente inverosimile; è questa la parte certamente più debole e artificiosa della pellicola). Di conseguenza finisce, con Sergio, in un gulag a spaccar pietre (formalmente per essere “rieducato”) dal quale riesce a fuggire e, attraverso una lunga odissea, a raggiungere il mare dove però una raffica di mitra lo uccide; l’amico invece viene ammazzato nel lager.
Il film dunque ha il coraggio di rompere il muro di omertà e di raccontare che il sistema comunista, sovietico o titino, è una realtà tenebrosa che non possiede il minimo rispetto per l’individuo, una realtà certamente peggiore del fascismo nostrano, dove quanto meno ci si limitava a spedire i pochi oppositori al confino. Tra l’altro la vicenda raccontata da Bonnard e soci allude a una sconcertante, successiva tragedia in corso (forse in modo inconsapevole): le peripezie ipotizzate per gli italiani comunisti in Istria (numerosi ci andarono a lavorare, su indicazione del PCI, proprio nel 1947, al fine di aiutare i compagni slavi in difficoltà con i macchinari requisiti) si riveleranno tragicamente esatte: dopo la drastica rottura di Tito e Stalin (marzo 1948) quegli ingenui lavoratori che si sono fidati delle rassicurazioni dell’apparato comunista, si ritrovano senza protezioni in terra straniera, in balia di un sistema che ora li sospetta di spionaggio. Vengono in larga parte rinchiusi in campi di lavoro e verranno liberati, un po’ alla volta, intorno alla metà degli anni cinquanta. Alcuni riusciranno a fuggire e a raccontare la verità, senza venire (come al solito) troppo ascoltati dai mezzi di informazione, in larga parte sempre “innamorati” dell’utopia comunista. Il film di Bonnard, girato nell’autunno 1948, registra già le prime avvisaglie di questa nuova, kafkiana situazione.
Inutile dire che le poche, sbrigative recensioni di parte socialcomunista mostrano la prevedibile dose di astio insolente e ribadiscono in modo inequivoco e desolante la sostanziale dipendenza della cultura dal potere politico (la qual cosa supera la questione comunista e si ritrova in ogni ambito storico e geografico). Sull’Avanti del 30 marzo 1949 si legge pertanto: “Il dramma di Pola, l’esodo di quella popolazione, è argomento delicato; poteva offrire materiale al cinema qualora avesse trovato un regista d’ingegno. Ha trovato purtroppo un uomo per il quale il facchinaggio non dovrebbe avere misteri a giudicare dalla delicatezza, dagli argomenti di cui si è servito per intonare un inno al nazionalismo più deteriore. La raccolta dei luoghi comuni e della retorica fascista (e degasperiana) è completa. Non manca nulla. E non mancano le falsità più indisponenti. Questo il contenuto. E la regia? Inesistente. La pellicola è ferma, morta; puzza di cadavere. I tentativi qua e là di raggiungere una certa calligrafia sono traditi dagli errori di grammatica. Gli attori, tranne la Dowling, non meritano citazione”.
La pellicola di Bonnard adotta stilemi da cinema noir per raccontare la progressiva discesa agli inferi di Berto. La fotografia è fortemente contrastata; prevalgono interni bui e claustrofobici mentre il taglio dell’inquadratura possiede quasi sempre una propria austera bellezza. La solenne e operistica colonna sonora di Giulio Bonnard sottolinea i passaggi tragici e distingue nettamente il mondo italiano da quello slavo attraverso un abile utilzzo dei rispettivi patrimoni musicali. Così i polesi, finalmente imbarcati sulla motonave diretta verso la patria, intonano il celebre, nostalgico coro “O Signore dal tetto natio” (Verdi, I Lombardi alla prima crociata, 1844) mentre la grande festa da ballo degli occupanti la “nuova” Pola viene commentata da musiche slave ispirate al folclore russo e al teatro lirico di Musorgski e Ciaikovski.
Le figure umane sono stilizzate e tuttavia abbastanza credibili: la povera gente che lascia tutto e si avvia verso l’ignoto è dipinta con sincera commozione; l’addolorato sacerdote che tutti ascolta e consiglia, invitando alla rassegnazione, è un ulteriore personaggio di notevole spessore; l’intellettuale comunista amico di Berto che finalmente crede di potere diventare “qualcuno” dopo avere dovuto servire a lungo un padrone è una figura antipatica il cui furore astratto è però veritiero e comprensibile come pure nel prosieguo la dolente presa di coscienza del proprio grave errore (l’essersi schierato contro la sua gente, in nome del comunismo), fino al punto di decidere di sacrificare la vita per aiutare Berto.
L’apice è costituito della parte finale, quando i due amici vengono inviati nel lager: solo allora il sistema totalitario mostra tutto il proprio orrore astratto, la propria devozione all’Idea in spregio alle esigenze umane dei singoli. Da quel mondo abietto Berto trova la forza di fuggire e le vicende successive si svolgono in un crescendo di tensione che trova la propria catarsi solo nelle ultime immagini.
Bonnard avvisa gli italiani che se due totalitarismo sono stati debellati, un altro sopravvive e si trova alle porte di casa nostra ed anzi minaccia anche l’Italia dove opera il più potente partito comunista d’Europa. Gli intellettuali, organici e non, fanno finta di niente: la commedia è cominciata, ha trovato un preciso punto di equilibrio nel contesto cattolico italiano e comincia a dare i suoi frutti (posti di potere e di prestigio, affari Import - Export, ricchi finanziamenti, feste popolari ecc.); nessuno pertanto deve disturbare. Gli italiani oltre che scettici e astuti, sono anche indolenti: canteranno per decenni la loro finta rivoluzione e tacceranno di “reazionario” e “fascista” chiunque si permetterà di infastidirli, ponendo loro serie questioni riguardanti il mancato rispetto delle libertà individuali, d’iniziativa, d’espressione, di culto e di movimento nei sistemi orientali. A Bettino Craxi, il politico più coraggioso in tale direzione (l’unico che osa rompere l’incantesimo e sganciare il PSI dall’orbita comunista), verrà fatto pagare il conto più salato: morirà in esilio.
Tino Gianbattista Colombo
Tino Gianbattista Colombo

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